Il progresso filosofico e scientifico si nutre del fervore delle diatribe, dove idee divergenti si intrecciano e si perfezionano reciprocamente. Un esempio paradigmatico di questo confronto è la diatriba “natura-cultura”, la quale si è da sempre basata su di un interrogativo fondamentale: “Le caratteristiche umane derivano da un corredo genetico predefinito ed intrinsecamente immutabile oppure sono influenzate in modo significativo dall’ambiente e dalle nostre interazioni sociali?”.
Le speculazioni filosofiche su questo tema sono numerose ed hanno coinvolto pensatori di ogni epoca, dall’Oriente all’Occidente. Parmenide, ad esempio, il padre dell’ontologia, sosteneva la sostanziale immutabilità dell’Essere, mentre Eraclito, detto l’oscuro, pensava la realtà come un perpetuo e continuo divenire. Evocativo, a tal proposito, è l’aforisma che quest’ultimo utilizzò per spiegarci tale concetto:
“Nessuno uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo.”
Un secolo più tardi, in India, sulla scia del pensiero eracliteo, il Buddha affermò che “l’unica cosa costante è il cambiamento”, mentre in Cina, in un periodo antecedente, pensatori come Lao-Tzu, Chuang–Tzu e Confucio identificarono nella capacità di prevedere e assecondare il cambiamento le qualità fondamentali del saggio.
Questa riflessione sulla natura del cambiamento, però, non è rimasta confinata alla filosofia, ma trova un riscontro diretto anche in molti ambiti scientifici. Un esempio sono gli studi sull’intelligenza umana, che hanno riscontrato una significativa rilevanza dei fattori genetici nello sviluppo delle capacità intellettive; tra questi, il Minnesota Twins Study, emerge come uno dei più rinomati.
Questa ricerca pionieristica, condotta su coppie di gemelli omozigoti cresciuti separatamente, ha utilizzato un approccio longitudinale per esaminare variabili cognitive, attitudinali e di personalità. I risultati hanno mostrato che, nel tempo, tali variabili tendono ad essere più simili tra i gemelli omozigoti, suggerendo un’influenza genetica predominante rispetto a quella ambientale. Questa visione, nonostante qualche critica di carattere epistemologico e metodologico, è tutt’ora la maggiormente accettata dalla comunità scientifica.
Tuttavia, altre ricerche offrono una visione diversa della questione, sottolineandone la sua complessità. Un caso illuminante è offerto da un importante studio condotto dalla Virginia University su un campione di gemelli di 7 anni. Questa indagine ha esaminato gemelli cresciuti in famiglie con diversi livelli di reddito, e ha utilizzato modelli biometrici per valutare l’influenza combinata di genotipo, ambiente condiviso e ambiente non condiviso sul QI. I risultati hanno mostrato che nelle famiglie benestanti, il contributo genetico al QI era significativamente maggiore rispetto a quello dell’ambiente condiviso; al contrario, nelle famiglie povere, il 60% della varianza del QI era attribuibile all’ambiente condiviso, mentre il contributo dei geni era quasi nullo.
I risultati di questi studi, quindi, si pongono in completa opposizione l’uno all’altro, e proprio da questo conflitto ha guadagnato attenzione una visione che ha cercato di superare tale dicotomia, riformulando alla radice le basi epistemologiche della diatriba.
Secondo quest’ultima, le influenze genetiche e ambientali non possano essere considerate separatamente, ossia come variabili “pure”. Infatti, il modo in cui l’esperienza plasma un organismo è influenzato in parte dal suo genotipo, mentre il genotipo stesso, a sua volta, si esprime in risposta all’ambiente circostante. A livello di specie, per esempio, il genotipo definisce la gamma di influenze ambientali con cui un organismo può interagire; d’altra parte, non è possibile comprendere la crescita di un organismo basandosi esclusivamente sui suoi geni, poiché lo sviluppo di qualsiasi tratto richiede l’interazione con specifici stimoli ambientali, aspetto già reso noto dal genetista statunitense Lewontin.
Pochi sanno che questa visione integrata non rappresenta una novità, ma riflette invece un principio fondamentale della filosofia orientale, la quale ha storicamente valorizzato il superamento delle opposizioni dicotomiche.
Dal punto di vista metafisico, logico e ontologico, infatti, il pensiero orientale ha costantemente cercato di oltrepassare la rigidità del dualismo, proponendo una visione più fluida e interconnessa della realtà. Concetti come il Tao per i taosti, il Brahman per gli induisti, e il Dharmakaya per i buddhisti, ad esempio, descrivono essenze universali e immutabili, ma al contempo riconoscono che queste essenze si manifestano attraverso cambiamenti e trasformazioni continue. Proprio per questo, dal punto di vista fenomenologico, il principio universale è un processo intrinsecamente dinamico, ma che mantiene simultaneamente la sua essenza immutata.
Questa prospettiva evidenzia come ogni tentativo di separare nettamente natura e ambiente sia quindi una semplificazione, che non riesce a catturare la complessità della realtà. Dunque, la stessa domanda “si nasce o si diventa” rivela, dal punto di vista epistemologico, una dicotomia che, come abbiamo visto, non può rappresentare il punto di partenza funzionale all’analisi della questione. Ciò che possiamo fare, allora, è trasferire la questione su di un piano pragmatico e operativo, spostandoci dal ricercare ciò che è “vero” in senso assoluto a ciò che è più utile o vantaggioso pensare.
A questo punto possiamo chiederci: è più funzionale pensare che “si nasce”, o conviene piuttosto pensare che “si diventa”?
Immaginate se adottassimo come filosofia di vita la prima possibilità: cosa accadrebbe se, di fronte a una malattia, accettassimo passivamente che non ci sia nulla da fare, perché crediamo che il nostro destino sia già scritto nel nostro DNA? Oppure, pensate agli effetti di un simile approccio sul nostro impegno nell’allenamento fisico o nello sviluppo intellettuale: perché allenarsi e sforzarsi, se ogni nostro limite o qualità è già stato deciso alla nascita?
Un tale determinismo porterebbe a una paralisi morale e psicologica, riducendo la nostra capacità di agire e di cambiare il corso degli eventi. Ci troveremmo, infatti, ad assumere un atteggiamento contraddistinto da passività, dove ogni fallimento sarebbe giustificato dalla presunta inevitabilità del destino, e ogni successo visto come predestinato, senza riconoscere il ruolo cruciale dell’impegno personale e delle esperienze.
Scegliere di credere che “si diventa”, invece, significa adottare un atteggiamento propositivo, di ricerca e di superamento dei proprio limiti, dove ognuno di noi diventa il protagonista attivo della sua vita. Questo, non solo ci permette di affrontare meglio le sfide personali, ma ci consente soprattutto di contribuire alla costruzione di una società più dinamica e responsabile.
Dopotutto, se la realtà è così complessa e sfumata, perché non scegliere la visione che ci permette di viverla in modo più pieno e consapevole?
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Il testo, essendo stato scritto per la partecipazione al festival della retorica, ha dovuto rispettare determinate condizioni, tra cui la lunghezza del testo stesso. Nel caso ci fossero domande o la necessità di consultare le fonti da me citate, vi chiedo di scrivermi una mail o di lasciare un commento.