Siamo esseri finiti e limitati, plasmati dalle nostre conoscenze ed esperienze, vincolati al linguaggio che usiamo e influenzati dall’ambiente in cui nasciamo, cresciamo e maturiamo. Eppure, dentro di noi, siamo attratti dall’infinito, attirati dall’illimitatezza e richiamati dal trascendente, desiderosi di eternità. Questi siamo noi, questa è la nostra condanna. E non è un caso che la morte e la malattia siano le paure per noi più grandi, dalle quali fuggire e rifuggire, con passo svelto, spedito, senza girarsi.
Ma ignorarle è impossibile; ci volano attorno come zanzare nelle notti estive, ogni tanto ne sentiamo il rumore, il ronzio, altre volte ne facciamo i conti direttamente sulla nostra pelle.
C’è stato qualcuno, però, che in passato, queste paure, ha deciso di affrontarle, non rifuggendo da esse ma anzi incontrandole, strada facendo. È questo il caso di Siddharta Gautama, universalmente conosciuto come il Buddha. Nato in un castello circondato da ricchezza, il giovane Siddharta decise di rinascere, di incontrarsi e scontrarsi con la vita, per quanto cruda e spietata. Scelse di uscire, di incamminarsi, e nel suo viaggio contemplò la malattia e la sofferenza, esplorando il significato della vita guardando negli occhi la morte. E questo gli permise di trovare la più totale beatitudine, il Nirvana, divenendo nuovamente bambino, completando il cerchio.
Ma la riflessione sulla morte non si fermò di certo in Oriente, anzi, sospinta dalla corrente del mediterraneo, proseguì il suo viaggio fino in Occidente, prendendo forma, acquisendo significato. Qui ci fu Platone, secondo cui l’intera filosofia è “esercizio e tirocinio della morte”, e successivamente Epicuro, Seneca e poi Heidegger, per citarne alcuni.
E se la filosofia ci ha aiutato ad affrontare in modo razionale, per quanto possibile, il nostro legame con la morte, le religioni hanno tentato di riformularne il significato, offrendoci narrazioni capaci di trasformare la fine in un nuovo inizio, il limite in una soglia, e il mistero in una promessa di senso, redenzione o trascendenza.
In questo, la fede è forse il farmaco più potente, il rimedio più efficace. Ci dona conforto, alimenta la speranza e offre un senso all’assurdità della nostra condizione mortale. Tuttavia, come ogni farmaco, anche la fede ha i suoi effetti collaterali: difatti, la promessa di un’esistenza eterna, pur confortandoci, può sminuire il valore del presente. Sognare una vita oltre il confine rischia di farci trascurare quella che stiamo vivendo, relegandola a un’anticamera dell’assoluto, un passaggio effimero verso qualcosa di più grande.
Ma l’uomo ha bisogno di principi, di idee, di strumenti per affrontare il proprio declino e trovare conforto. Questi, sebbene parziali ed imperfetti, sono come una zattera che ci fa galleggiare sopra le difficoltà della vita, anche quando la forza dell’acqua ci trascina verso il fondo, togliendoci il respiro.
E se né la filosofia né la fede sono riuscite a dissipare del tutto queste inquietudini, non sarò certo io a cancellarle, perché sono sensazioni umane, ontologicamente presenti nell’essenza stessa del nostro essere.
Ma se esistesse, nonostante tutto, un rimedio? Un farmaco naturale, capace di unire razionalità e spiritualità, con poche controindicazioni, e che ci permetta non solo di convivere con la nostra finitezza, ma di andare oltre?
E badate bene, non si tratta di raggiungere l’eternità, a noi lontana e inarrivabile, ma piuttosto di tendersi ad essa, allungando la propria mano, fino a sfiorarla, sentendosene parte.
Possiamo allora scegliere di vivere per perdurare, creando qualcosa che sopravviva alla nostra esistenza fisica: un figlio, un’opera d’arte, una riflessione che continui a parlare al mondo e nel mondo.
Ognuno di noi, con le proprie intenzioni e aspirazioni, può impegnarsi a diventare un classico senza tempo, lavorando con passione e silenziosa dedizione, come un monaco che trasforma ogni preghiera in qualcosa di sacro.
Un muretto costruito con tanto sudore, un libro generato dalle nostre intuizioni, un’opera plasmata dalle nostre mani, un figlio concepito attraverso l’amore: un amore che nasce condiviso e diviene indiviso, perché diventa una sostanza unica, creatrice e generatrice.
E se fosse proprio questo il senso ultimo del nostro esistere? Lo scopo che tutti noi possiamo nutrire e coltivare?
Traccia un segno, sfiora l’eterno, lascia un’impronta.