Ci sono miti, storie e allegorie che hanno segnato la storia del pensiero umano, diventando secolo dopo secolo, fonte di cospicue interpretazioni e commenti. Uno di questi è senza dubbio il mito della caverna, esposto da Platone nel settimo libro della Repubblica.

Naturalmente, non ci è dato sapere se il filosofo abbia inserito alcuni dettagli in modo volontario e con fini esplicativi, o se la loro ricerca sia esclusivamente il frutto della nostra ossessione o immaginazione. Tuttavia, studiarlo per coglierne dettagli e sfumature nascoste è un lavoro tutt’altro che semplicemente “intellettuale”, ma che porta con sé fini istruttivi ed educativi.

È per tale motivo che ho deciso di proporre qui una mia personale interpretazione, soffermandomi su quei dettagli che evidenziano gli aspetti più centrali dell’attività filosofica: l’azione come atto filosofico, la necessità di una guida, il coraggio nell’affrontare l’ignoto e la filosofia come pratica comunitaria.

L’azione come atto filosofico

Nel mito, il primo gesto significativo compiuto dal prigioniero all’interno della caverna non si manifesta sotto forma di discorso o riflessione teoretica, bensì come un’azione concreta: egli si muove, liberandosi dalle catene e si dirige verso la luce. Tale dettaglio riveste un’importanza fondamentale, poiché sottolinea come la filosofia non debba essere concepita come un’attività esclusivamente speculativa o astratta, ma come una pratica viva e dinamica .

Il filosofo raffigurato nel mito, infatti, non si limita a parlare con gli altri prigionieri, ma innanzitutto agisce, compiendo un atto che è, a tutti gli effetti, un atto filosofico. Questa liberazione si configura come un’esperienza trasformativa, che precede e fonda ogni ulteriore tentativo di spiegazione o di trasmissione del sapere.

In questo senso, il mito può essere interpretato alla luce degli studi di Pierre Hadot, il quale distingue chiaramente tra “filosofia” e “discorso filosofico”, sottolineando come la vera filosofia sia, innanzitutto, una forma di vita che si traduce in azioni concrete (1).

La necessità di una guida

Oltre a descriverci la filosofia come un atto concreto, il mito evidenzia inoltre l’importanza della figura del maestro, un elemento cruciale nella tradizione filosofica. L’uscita del prigioniero, infatti, non sembra essere descritta da Platone come un atto totalmente autonomo, dato che il filosofo usa spesso il verbo “costringere”; Socrate, nel suo cammino verso la luce, sembra piuttosto avvalersi di una guida che lo orienta, che seppur non specificata, può essere intesa sia come il logos, sia come un mentore o un maestro (2).

Prendendo come riferimento quest’ultima visione, Platone, volontariamente o involontariamente, ci trasmette un messaggio interessante: il maestro non è un semplice depositario del sapere, un libro da leggere, sfogliare e da imparare a memoria, ma piuttosto un vero e proprio catalizzatore di esperienze trasformative. La sua figura, di conseguenza, risulta affascinante tanto quanto determinante, poiché spinge il suo discepolo a confrontarsi con le verità parziali di cui è a conoscenza, abbandonando gradualmente le catene dell’ignoranza.

Il coraggio nell’affrontare l’ignoto

Una volta compiuta l’azione di liberazione, il prigioniero si trova ad affrontare una sfida enorme: la paura dell’ignoto. Esce dalla caverna, si guarda attorno, e deve scegliere se continuare a soffrire per arrivare alla conoscenza (Platone specifica come la luce del sole lo accechi) o se piuttosto fare un passo indietro.

Questo passaggio, forse il fulcro dell’allegoria, evidenzia metaforicamente la relazione cruciale tra paura e coraggio nel processo filosofico. Platone ci insegna infatti che la filosofia non è solo il risultato della meraviglia (thauma, come suggerito da Aristotele), ma nasce anche dalla paura di ciò che non è conosciuto.

In particolare, chi è capace a trasformare questa paura in coraggio diventa un vero filosofo, poiché è disposto a mettere in discussione le sue certezze e ad affrontare l’ignoto. Al contrario, chi soccombe alla paura, finisce per allontanarsi dall’Aletheia, ossia dalla Verità, rimanendo nelle tenebre dell’ignoranza. Pertanto, il filosofo non è esclusivamente colui che si stupisce del mondo, in termini quasi incantanti, ma è soprattutto colui che è disposto a soffrire per la conoscenza e a sopportare la fatica che ogni cambiamento richiede (3).

Come ci ha suggerito Emil Cioran qualche secolo più tardi, infatti:

“Chi non ha sofferto a causa della conoscenza, non ha mai conosciuto nulla”.

Sumphilosophein: la filosofia come pratica comunitaria

Dopo aver affrontato la paura del cambiamento e contemplato gli enti che lo circondano, il prigioniero liberato decide di tornare nella caverna, per trasmettere ai suoi compagni ciò di cui ha fatto esperienza. Perché?

Platone, con questa semplice ma simbolica azione, sottolinea che la filosofia non è mai un atto esclusivamente individuale, ma una pratica intrinsecamente comunitaria. Nel pensiero classico, infatti, la filosofia non era solo uno strumento di cura personale o di riflessione sulla polis, ma serviva direttamente la polis stessa. Non è un caso che Hadot descriva il dialogo come un vero e proprio esercizio spirituale, dove lo scopo, lungi che essere “solamente” quello di raggiungere la verità, si configurava soprattutto nell’atto stesso del dialogare.

In questo contesto, il prigioniero liberato diventa dunque un messaggero, il cui ritorno rappresenta un vero e proprio invito a coltivare il proprio legame con la comunità, esplorando insieme il significato della libertà e della conoscenza.

In conclusione, il mito della caverna ci offre una rappresentazione simbolica dei cardini dell’attività filosofica, soprattutto com’era intesa nel pensiero classico. Al centro vi è, e vi sarà sempre, il pensiero critico, che spinge il filosofo a interrogare la realtà e a mettere in discussione le certezze. Oltre a ciò, Platone ci ricorda che il filosofare non si esaurisce però solamente in questo: richiede coraggio nell’affrontare l’ignoto, la ricerca attenta di un maestro, azioni concrete e un impegno verso la collettività.

(1) Per un approfondimento, è possibile leggere i testi “Esercizi spirituali e filosofia antica” e “Che cos’è la filosofia antica” di Pierre Hadot.

(2) In questo caso, l’influenza del maestro può essere intesa soprattutto dal punto di vista psicologico.

(3)Il significato del termine Thauma, secondo il filosofo Massimo Cacciari